I coniugi Tomás e Paquita Alvira Domínguez

Don Francesco Russo

 

          Accolgo con gratitudine la richiesta di presentare brevemente una coppia di sposi spagnoli, entrambi membri soprannumerari della prelatura dell’Opus Dei, ovvero fedeli chiamati a cercare la santità nella vita matrimoniale. Tutti e due conobbero san Josemaría Escrivá, fondatore dell’Opus Dei, il quale accompagnò spiritualmente Tomás per alcuni anni (finché san Josemaría non si trasferì a Roma) e battezzò il loro primo figlio. Si conserva una bella corrispondenza tra loro due e il fondatore. Tomás, che era nato nel 1906, morì nel 1992, mentre sua moglie Francisca (familiarmente Paquita), venuta alla luce nel 1912, morì nel 1994. Le loro Cause di Canonizzazione, avviate separatamente, si trovano nella fase romana.

          Per attenermi alla prospettiva che mi è stata richiesta, cercherò di mettere in luce, nei limiti del possibile, il modo in cui si adoperarono per tradurre in pratica, con la grazia di Dio, lo spirito dell’Opus Dei che è incentrato sulla presa di coscienza di essere chiamati alla santità e all’apostolato nello svolgimento del lavoro e nel compimento dei doveri quotidiani. Tomás e Paquita impararono di prima mano questo spirito, predicato e vissuto da san Josemaría. Mi sembra che lo riassumono bene le sue parole di un’omelia pronunciata nel 1967, dinanzi ad alcune migliaia di persone:

«Dovete invece comprendere adesso — con una luce tutta nuova — che Dio vi chiama per servirlo “nei” compiti e “attraverso” i compiti civili, materiali, temporali della vita umana: in un laboratorio, nella sala operatoria di un ospedale, in caserma, dalla cattedra di un’università, in fabbrica, in officina, sui campi, nel focolare domestico e in tutto lo sconfinato panorama del lavoro, Dio ci aspetta ogni giorno.
Sappiatelo bene: c’è “un qualcosa” di santo, di divino, nascosto nelle situazioni più comuni, qualcosa che tocca a ognuno di voi scoprire» (Josemaría Escrivá, Colloqui con monsignor Escrivá, Ares, Milano 2002, sesta edizione, n. 114).

Proprio in questi giorni sto ultimando, sotto la guida del Relatore designato dal Dicastero delle Cause dei Santi, le Positiones, ovvero lo studio sulla vita, sull’esercizio delle virtù e sulla fama di santità e di favori. Le testimonianze su di loro sono molto belle, com’era d’altronde da aspettarsi, e illuminano i diversi periodi della loro vita, fin nei particolari della vita quotidiana. In effetti, i coniugi Alvira Domínguez ebbero nove figli: il primo morì all’età di cinque anni, ma gli altri otto, di cui uno è sacerdote, hanno potuto testimoniare ai processi diocesani del papà e della mamma e hanno raccontato fin nei dettagli, con il punto di vista proprio di ognuno di loro, come si svolgevano le giornate dei genitori.

Senz’altro, in entrambi l’aver conosciuto san Josemaría Escrivá e averne recepito il messaggio ha segnato una svolta nella loro vita. Ma possiamo affermare che generalmente la vocazione non poggia mai sul vuoto di una vita del tutto priva di virtù e di qualità. Dio chiama ognuno ad essere suo strumento, conoscendone difetti e pregi, limiti e doti. Affermo ciò perché sia Tomás sia Paquita provenivano da famiglie cristiane e si erano già avviati lungo un cammino lavorativo che vivevano con dedizione e impegno. Forse proprio per questo poterono capire a pieno l’affermazione di san Josemaría secondo la quale la vocazione umana e professionale è parte della vocazione divina: «Siccome la condizione umana è il lavoro, la vocazione soprannaturale alla santità e all’apostolato secondo lo spirito dell’Opus Dei conferma la vocazione umana al lavoro» (Josemaría Escrivá, Colloqui con monsignor Escrivá, cit., n. 70).

Paquita aveva studiato magistero e ancor prima di sposarsi aveva cominciato a lavorare come maestra elementare; aveva poco più di vent’anni e nella graduatoria del concorso per l’insegnamento risultò al primo posto. È stato provvidenziale che si siano potute raccogliere le testimonianze di alcune sue ex-alunne, che ne ricordavano gli anni di insegnamento con ammirazione e gratitudine: il suo sorriso, il suo garbo, la sua pazienza. Lo si vede in un bellissimo documentario sui coniugi Alvira (Los Alvira: Juntos hacia el cielo, BetaFilms 2018, con sottotitoli nelle principali lingue e disponibile su YouTube), con le loro testimonianze registrate nella stessa scuola e nella stessa aula in cui erano state alunne di Paquita.

A causa della guerra civile spagnola, il loro fidanzamento durò vari anni e poterono sposarsi appena concluso il conflitto. Dopo la nascita del primo figlio e considerando anche che il marito, agli inizi del suo lavoro, doveva viaggiare spesso, Paquita decise di smettere di insegnare per dedicarsi a tempo pieno alla famiglia. Fu una scelta libera e maturata, di cui non si pentì mai e che sicuramente contribuì in modo decisivo alla buona educazione dei loro nove figli. Certamente, mettere da parte la scuola significò per lei assumere consapevolmente il lavoro domestico in tutta la sua pienezza.

Nel brano di san Josemaría che ho citato in precedenza venivano menzionate le incombenze domestiche come uno degli ambiti lavorativi in cui incontrare Dio,  giacché lui spiegava: «le attività professionali — anche il lavoro domestico è una professione di prim’ordine — sono testimonianze della dignità della creatura umana; occasioni di sviluppo della personalità; vincoli di unione con gli altri; fonti di risorse; mezzi per contribuire al miglioramento della società in cui viviamo, e per promuovere il progresso dell’umanità tutta — Per un cristiano, queste prospettive si allungano e si allargano ancora di più, perché il lavoro — assunto da Cristo come realtà redenta e redentrice — si trasforma in mezzo e cammino di santità, in concreta occupazione santificabile e santificatrice (Josemaría Escrivá, Forgia, Edizioni Ares, Milano 2004, dodicesima edizione, n. 702).

Nel modo in cui Paquita si dedicò al marito, ai figli, alla casa, troviamo rispecchiato il suo amore per Dio e per il prossimo. Nella cura con cui insegnava ai figli la sobrietà e la sincerità nelle piccole cose, nella pazienza affettuosa verso la cognata che abitava con loro e aveva un carattere difficile, nella generosità con cui aiutava i vicini di casa o i bisognosi. Mi ritorna in mente spesso un piccolo ricordo di uno dei suoi figli: quando lui era ormai grande e non abitava più con i genitori si rese conto che la mamma organizzava le sue giornate (la spesa o le altre commissioni da sbrigare) per farsi trovare sempre a casa quando i figli rientravano da scuola, in modo da accoglierli affettuosamente con un bacio. È un segno piccolo ma evidente di come aveva impostato le priorità del suo focolare.  

Suo marito Tomás aveva l’indole dell’educatore e mise le sue doti al servizio degli studenti, delle loro famiglie e dei suoi colleghi. Era laureato in Chimica e insegnò nelle scuole superiori; collaborò alla nascita e allo sviluppo di una istituzione educativa chiamata Fomento de Centros de Enseñanza, che in molte città della Spagna promuove centri scolastici che coinvolgono in prima persona le famiglie nel progetto educativo; quando Tomás morì erano ormai una trentina le scuole di questo tipo.

Anche nel suo caso disponiamo di commoventi testimonianze dei suoi ex-alunni e dei suoi colleghi. Mi limiterò, però, ad accennare a un periodo della sua vita di insegnante in cui portò a termine quella che potremmo definire una vera impresa. Quando era già un docente di ruolo, un influente generale dell’esercito lo chiamò a dirigere la scuola per gli orfani figli della Guardia Civil, l’equivalente ai carabinieri italiani. Vi studiavano e risiedevano 500 ragazzi dai 6 ai 18 anni. Era praticamente come una caserma, con camerate di 100 letti, gli alunni indossavano la divisa e c’era persino una prigione per i più ribelli. Tomás ci pensò e accettò con la condizione di sottoporre le sue proposte direttamente allo stesso generale, per non dover convincere prima eventuali intermediari. Coinvolse il corpo docente nella profonda opera di trasformazione di quella scuola: ottenne di ristrutturare l’edificio e abolì le camerate, creando una specie di miniappartamenti con otto letti, una saletta per lo studio e un piccolo soggiorno; fece costruire una cappella accogliente; anziché far leva sulla disciplina e sulle punizioni, instaurò un clima di fiducia e di amicizia tra i colleghi e con gli studenti. I ragazzi vedevano come Tomás voleva loro bene: una volta trascorse buona parte della notte accanto al letto di uno degli alunni che aveva la febbre molto alta. Come ultima tappa della trasformazione ottenne, non senza difficoltà, che la scuola fosse destinata non solo agli orfani ma anche agli altri figli di militari, affinché i primi non si sentissero diversi o emarginati.

Gli studenti notavano che Tomás insegnava in primo luogo con l’esempio. Visto che siamo nel mese del Rosario, vorrei menzionare il ricordo di un ex-studente di quella scuola, che testimoniò: “La recita del Santo Rosario non era obbligatoria, ma noi lo recitavamo molto velocemente. Se generalmente ci vogliono venti minuti, noi ci sbrigavamo in sei o dieci minuti, le litanie scorrevano con velocità vertiginosa… Un giorno, il prof. Tomás ci sorprese in questo modo. Fermò il Rosario e pronunciò le più belle frasi che io ho mai sentito, e che conservo impresse in me: «Ma, figli miei, non vi rendete conto che state rivolgendo complimenti a vostra Madre la Vergine? State a sentire: Rosa Mistica, Stella del Mattino, Torre d’Avorio, Casa d’oro… fatelo con affetto, come se steste parlando con vostra madre». È vero che quando recito il Rosario mi ricordo sempre di lui».

Concludo con la testimonianza di una collaboratrice domestica che lavorò a casa della famiglia Alvira negli ultimi anni della loro vita: “Non ho mai visto una coppia di sposi come questa. Non c’era mai una discussione tra loro. Il Sig. Tomás stravedeva per sua moglie. Era sempre attento per capire di cosa aveva bisogno, non si dimenticava di regalarle dei fiori in occasione dell’onomastico e dell’anniversario. Anche la Sig.ra Paquita era costantemente premurosa verso di lui (…). Io vedevo che non le piaceva molto andare il fine settimana a Majadahonda [la casa in campagna dove trascorrevano le vacanze], ma siccome piaceva a suo marito, lei era sempre disposta ad andarci. Sono convinta che era così profonda la loro unione, che la morte di Tomás fu anche la morte di Paquita. In giro la gente si rendeva conto di come erano innamorati». Proprio questa signora riferisce un commento che mi è piaciuto molto, con il quale termino il mio intervento. Un giorno il portiere del palazzo nel vederli uscire e avviarsi a piedi lungo il marciapiede, disse a questa signora: “Guarda come vanno assieme, sembrano due sposini”.